la ragazza di Shinjuku

la porta di casa ha per maniglia l'ombelico

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Correre,correre,

diventare grandi centimetro dopo centimetro dall’altra parte del mondo senza nemmeno avvertire il dolore dell’estensione. Al più, la fatica.

Ogni andare è sempre stato di enorme beneficio per le mie carenze d’ossigeno troppo frequenti.

Uno zaino e tanta, troppa umidità; delle scarpe che stingono sotto litri di pioggia elegante.

Dove siamo? Ho mai fatto in tempo a capirlo? A me non sembra affatto.

Se mi fermo a pensare, non pare succedere nulla di diverso perciò cammino e basta, confidando nel paesaggio mutato e mutevole e in un caffè americano incapace di svegliarmi.

Il verde marte scivola liquido dentro alle scarpe, impregna le calze e mi colora la pelle, le unghie.

Ho cerato le sneakers perchè non permeasse niente da fuori ma ora sembra che tutti i temporali scoppino da dentro, lasciando secco l’involucro.

Strano come troppo spesso un paio di scarpe sia stata la mia metafora perfetta.

Se ammettessi che ho atteso tanto qualcosa, anestetizzato l’attesa, anestetizzato la fine dell’attesa, anestetizzato il vissuto e anche la delusione di un altro finale?

Sarebbe come dire di non essere mai partiti e forse, un pò, l’ho fatto.

Io amo viaggiare ma non me ne frega niente di tutti quei posti che potrei vedere. O meglio, non così tanto da volerli girare, guardare, annusare se dentro non ci fossero altre mille ragazze di Shinjuku.

Non mi resterebbe niente, nessun ricordo da appiccicare a una cartolina perfetta, alla mappa del mio muovermi nel mondo.

La metropolitana di Tokyo sa essere così caotica che non c’è spazio nemmeno per quello che ti porti dentro.

Siamo riusciti a sederci solo perchè siamo saliti sul quel treno da una stazione lontana dal centro.

Poi lei.

Che di chiaro aveva solo i denti e la pelle. Persino la sclera dei suoi occhi era tutt’altro che bianca. Piangeva.

Singhiozzava nel suo pianto, in piedi, nel vagone affollato di un treno.

Piangeva uno di quei pianti che lo capisci subito non finiranno presto.

-Tu come stai?

avrei voluto chiederle, senza nemmeno passare dal via, da un “come ti chiami?”

Non lo so se è Tokyo che sovrasta o se era lei a rimpicciolirsi ma riusciva a piangere forte nascondendosi benissimo, quasi con eleganza; con l’esatta capacità di mimesi di un pesce pietra stagliato sul fondale. Lei, una ragazza giapponese con la testa bassa, in una metro piena di ragazze giapponesi con le teste basse, su una tratta della Shinjuku Line, a Tokyo. A tradirla solo le spalle che di tanto in tanto non riuscivano ad addomesticare gli spasmi.

Ed io che ho il sangue malato, di quello che mi fa vergognare della mia felicità se ho davanti i casini degli altri, ho stritolato spesso i due lati del mio buon senso, tra il capo dell’invadenza e quello del conforto, prima di alzarmi ed avere il coraggio di sfiorarle un braccio.

Ha fatto una smorfia col viso e con tutto il resto del corpo. Una di quelle che fai se sei sott’acqua e qualcuno bruscamente ti strappa via e ti riporta su. Una di quelle che non ti aspetti di respirare, così, tutto insieme e all’improvviso.

I bulbi dei suoi occhi hanno scavalcato in una frazione di secondo anche la linea che attacca le palpebre superiori al resto della faccia; il suo sterno e le sue spalle si sono sollevate ed espanse, come spiazzate; come non fossero abituate a quella dimensione.

-Scusami- avrei voluto dirle.

Ma il treno viaggiava veloce e forse anche lei e non le ho detto niente; le ho solo fatto un cenno con la mano sinistra in direzione della poltrona che avevo appena lasciato vuota, per lei.

Ha accennato un piccolo sorriso, come un gesto di gentilezza in risposta alla mia gentilezza ed ha accettato. -Thank you!Arigatou,arigatou.- mi ha detto con voce sottile, subito nebulizzata nell’aria di quel vagone.

Come non le avessi mai interrotto il flusso delle emozioni, appena seduta ha chiuso gli occhi ed ha ripreso a piangere più forte di prima.

La sua minuscola borsetta sulle ginocchia e la consapevolezza che qualcuno si fosse accorto di lei non mostrandole indifferenza.Il bagaglio arricchito dall’ingombro del mio sguardo su di lei ma, nonostante questo, le scendeva dagli occhi la baia di Tokyo ed ogni lacrima sembrava un mare generoso di pesci già digeriti.

E io, mi improvvisavo pescatore.

Uno dopo l’altro, con dita sottili ed unghie smaltate di vinaccia scuro, da quel piccolo budello di borsetta, sfilava fazzoletti di carta nera che portava alle ciglia, senza riuscire ad arginare quel dolore liquido, qualunque fosse. Il gesto si decorava del suono della finissima plastica trasparente che conteneva quei rettangoli di carta e che, stropicciata e strappata, si ribellava all’occasione.

Se è vero che il nero inghiotte i colori, sarà che lei,forse, che già si sforzava di piangere così pesantemente le sue lacrime,non aveva anche la voglia di guardarle prosiugate su un fazzoletto.

Mi ricordo che un tempo, quand’ero alle medie, una mia compagna di classe fece un viaggio ad Amsterdam con la sua famiglia e al ritorno mi regalò un pacchetto di fazzoletti con l’immagine di un carlino dalla dentatura umana spalancata in un mega sorriso. Erano simpaticissimi ma davvero non avrei saputo cosa farci. Trovavo ingegnosa l’idea che fazzoletti divertenti ti distogliessero dal pianto; che un cane dal sorriso umano se ne stesse lì, a fissarti con la convinzione che qualunque fosse il motivo della tua afflizione, lui sarebbe riuscito a fartelo dimenticare in un istante e almeno fino all’istante dopo. Nonostante questo, io però non li ho mai usati. Forse volevo piangere e basta, senza essere interrotto.

I suoi invece, erano nero inchiostro sbiadito e ad occhio e croce, considerata la frequenza con cui li sfilava da quella borsetta, non direi fossero il regalo di qualcuno.

Lei, che con la voce dai db più vicini al silenzio che a quelli di un suono udibile, due fermate dopo scendeva ed accennava un altro sorriso riproponendo: <<Thank you so much, arigatou, arigatou…>>. Io, pescatore col secchio vuoto e il cuore in un involucro di carta nero inchiostro sbiadito, rallentavo la scena e la seguivo con lo sguardo sulla banchina, riprendere un singhiozzo più grave, più profondo, come ne avesse costretto troppo gli argini durante il suo viaggio sulla Shinjuku Line.

Due secondi dopo, il treno riprendeva la sua corsa e lei spariva, ingoiata da un corridoio umano frettoloso, animali agitati e impazienti, come minatori alla ricerca della luce e dell’aria esterna.

Il fatto che non l’abbia più rivista dopo l’ultimo istante in metro e che non la rivedrò mai più, la renderà per sempre la ragazza triste di Shinjuku e lascia in me la voglia di capire che colore abbiano le lacrime destinate ai fazzoletti nero inchiostro sbiadito.